Ci si può abituare al suono del telefono, al grido della sirena, ai vari ed eventuali odori, alla vista del sangue, ad alzarsi nel cuore della notte trascinandosi giù dal letto, ad alzarsi alle 6 del mattino per andare in sede anche quando fuori nevica.
Però posso garantirvi che nessuno si abitua mai alla sofferenza, al dolore, alla morte.
Nessuno sano di mente e con esperienza nell'ambito può dire che siano cose a cui "ci si può fare l'abitudine".
Si impara a conviverci, in modo più o meno sereno.
Per la gente noi andiamo e veniamo, di solito anche abbastanza velocemente.
Il fatto è che per noi il turno non è sempre così breve.
Ci sono certe mattine dove il tempo vola, altre in cui speri che voli.
Non sappiamo mai cosa potrebbe capitare, e credo che il problema maggiore per molti di noi sia, a volte, di non avere nemmeno il tempo per realizzare.
E' vero, abbiamo forse un po' più di coraggio, un po' più di determinazione, un po' più di resistenza, ma è anche vero che a volte avremmo bisogno di un po' più tempo.
Alcune situazioni in cui veniamo a trovarci a volte hanno ripercussioni nel momento seguente alla conclusione del servizio, e come già dicevo in alcuni post indietro, è fondamentale impedire a tutte queste esperienze di inghiottirci.
Personalmente il mio modo per interiorizzare l'ho trovato in breve tempo: io parlo.
Parlo tanto, a volte forse troppo, ma del resto l'avrete capito da soli che sono una che parla...altrimenti non avrei scritto un blog.
C'è chi piange, chi tace, chi molla, chi si distrae, chi si fa divorare...e c'è chi, come me, parla.
Una collega, all'inzio del mio percorso, una volta mi disse: "a volte, soprattutto le prime, se senti di doverti sfogare, fallo. Piangi, urla, parla, fai il cazzo che vuoi, ma sfogati. A certe cose non si può fare l'abitudine, ma del resto siamo tutti sulla stessa barca, siamo qui per aiutare e per aiutarci soprattutto. Perché noi aiutiamo il paziente, ma poi dobbiamo anche darci una mano a vicenda, non siamo dei robot e se non lo facciamo tra noi, non c'è qualcuno che ci pensa fuori da queste mura".
Sul momento, sono sincera, non avevo capito cosa volesse dire e mi ero chiesta cosa avesse tanto da preoccuparsi.
La mia proverbiale fortuna mi ha concesso di rendermene conto in tempo zero, comunque, quando vidi il primo ACC con decesso annesso poco dopo.
Quella volta, come già dissi in precedenza, ero una ragazzina neo-certificata e mi ritrovai da sola con la figlia della signora deceduta, che altri al mondo non aveva che sua madre.
Cosa avrei potuto dire? Cosa avrei dovuto dire? Esistono parole adatte? Cosa avrei dovuto fare? Come mi sarei dovuta comportare?
In quel momento ho capito cosa significa aver bisogno di una mano, a volte.
Quella volta tornai in sede con l'amaro in bocca, con la sensazione di non aver fatto abbastanza, nonostante il mio equipaggio dicesse il contrario.
Avevo bisogno di darmi una risposta, e così ho iniziato a raccontare, a confrontarmi con altri.
Raccontare, parlare, confrontarmi mi ha permesso di affrontare con lucidità i fatti evitando di farmi divorare da essi, mi ha permesso di mantenere quel salutare distacco che permette a ciascuno di noi di non mollare.
Questa è la ragione per cui tengo in particolar modo al debriefing, cioè quell' "intervento psicologico-clinico strutturato e di gruppo, condotto da uno psicologo esperto di situazioni di emergenza, che si tiene a seguito di un avvenimento potenzialmente traumatico, allo scopo di eliminare o alleviare le conseguenze emotive spesso generate da questo tipo di esperienze." (cit. Wikipedia).
Non sempre abbiamo a disposizione uno "psicologo esperto di situazioni di emergenza", ma ripercorrere tutto l'intervento insieme, a mente fredda, è lo strumento migliore che una squadra ha a disposizione per far chiarezza.
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