Pur essendo una persona davvero molto paziente, c'è una cosa su cui non transigo: LA PULIZIA DELL'AMBULANZA.
Alcuni soccorritori sembrano non ricordare che sui nostri mezzi carichiamo, letteralmente, cani e porci: se siamo fortunati portiamo via la signora anziana lavata e profumata con un po' di mal di schiena, se ci va male potremmo ricoverare il drogato della situazione.
E' FONDAMENTALE comprendere che nonostante la gente che trasportiamo sia la più disparata, dobbiamo garantire il massimo del servizio ad ognuno di loro; l'ambulanza è un mezzo di soccorso sanitario e non deve diventare veicolo di germi e schifezze affini.
Per intenderci: non devo avere schifo io a mettere piede sull'ambulanza, né al paziente deve venire anche solo il dubbio che il mezzo non sia perfettamente pulito e igienizzato.Non venitemi a dire che per pulire e igienizzare il mezzo serve chissà cosa, perché non è vero.
Se ad ogni turno l'equipaggio pulisse l'ambulanza, di problemi non ce ne sarebbero.
Di pari passo alla pulizia del mezzo, ci và il check up, naturalmente.
Fare il check up significa controllare che sull'ambulanza non manchi niente, né una garza sterile né le forbici né nessun'altro tipo di presidio.
E' matematico che quando manca qualcosa, si finisce con l'averne bisogno.Normalmente io e squadra agiamo in questo modo:
ad inizio turno l'autista controlla la parte anteriore del mezzo, luci, documentazione, mappe, navigatore, sirene, benzina e dotazione (kit scasso etc), mentre il caposquadra e il terzo soccorritore controllano il vano sanitario.
Il controllo del vano sanitario per me è indispensabile, non riuscirei a fare un turno senza controllare che il mezzo sia a posto; mi manda letteralmente in bestia vedere colleghi sottovalutare l'importanza di questo step, perchè uscire con un'ambulanza che non ha tutto il materiale al suo posto significa rischiare di non avere quel che serve e di fare una colossale figura da incompetenti davanti al paziente, che teoricamente dovrebbe fidarsi di noi.
I nostri mezzi sono dotati di una Check List, cioè una lista contenente in dettaglio cosa, dove e in che quantità è presente sul mezzo.
Facendo tanti turni ho finito con l'imparare a memoria letteralmente quella lista, e questo mi aiuta quando bisogna spiegare al volo a chi è meno pratico dove trovare le cose.
E' davvero importante inoltre mostrare sempre alle nuove leve tutto il materiale e il come utilizzarlo, e non c'è miglior momento del controllo del mezzo per farlo.
Terminato il controllo, si passa alla pulizia.
E' nostra buona abitudine disinfettare il fonendoscopio, lo sfigmomanometro e il ditale del saturimetro, che sono i due presidi più utilizzati.
Passiamo poi la scopa per terra, perchè è incredibile la quantità di sassi e polvere che riesce a salire magicamente.
Dopo è il momento del vano vero e proprio: armati di sacrosanta pazienza, armati di disinfettante apposito passiamo tutto, barella, sedie, panca, ripiani, scomparti, presidi etc.
Tutto deve avere un "buon odore" di pulito.
Le prime volte restavo letteralmente a bocca aperta nel vedere che tipo di schifezze potessero restare sul mezzo dopo un intervento.
Ultimo passaggio, la pulizia con il mocio del pavimento.
Pulire e controllare l'ambulanza di solito ci porta via circa tre quarti d'ora, che diventa un'oretta se bisogna anche lavare il mezzo esternamente con canna e spazzoloni.
So che fare l'impresa di pulizie non è entusiasmante come uscire in sirena, ma penso che aiuti molto mettersi nei panni del paziente, quando non avete voglia di pulire.
Come vi sentireste se sulla barella di un'ambulanza lurida ci foste voi?
lunedì 28 novembre 2011
venerdì 25 novembre 2011
Competenze
Ultimamente ho avuto modo di confrontarmi con alcune persone in termini di lavoro ed esperienze; alcune di loro, parlando di valorizzazione del proprio profilo, hanno affermato che includere nelle "competenze" anche le attività di volontariato può essere un punto di favore o sfavore, a secondo di come si spiega la propria esperienza.
Stasera quindi ho deciso di annoiarvi dandovi la mia personale opinione sul tipo di competenze che permette di acquisire l'attività del soccorritore.
Premetto che io di esperienze lavorative ne ho poche, causa giovane età, quindi come tanti altri miei coetanei devo barcamenarmi con quel che so.
In alcuni colloqui di lavoro mi hanno chiesto in che modo questa esperienza abbia contribuito ad arricchire le mie competenze, ed in breve ho spiegato ciò che segue.
Fare il soccorritore presuppone l'aver innanzi tutto seguito un corso di discreta durata e discreto impegno in termini di tempo e disponibilità.
Far parte di un'associazione non vuol dire, almeno per me, fare solo servizi di 118, ma anche partecipare a tutta una serie di iniziative di vario genere, dal trasporto
disabili all'assistenza ad eventi et cetera.
In soldoni, significa essere umili (e non tutti purtroppo riescono ad esserlo!) nel chiedere sempre quando non si sa o non si capisce, perché non basta il corso per essere un buon soccorritore, sappiamo tutti quanto la pratica e la teoria si distanzino.
Inoltre, a fini di colloqui di lavoro, è simpatico sottolineare che essere un soccorritore vuol dire lavorare in squadra, essere in grado di non perdere la calma se c'è qualche imprevisto perché in uscita capita sistematicamente qualcosa che non doveva succedere, e quindi entra i gioco anche una certa dose di fantasia mista a capacità di problem solving.
Essere un buon soccorritore implica anche avere una certa dose di sensibilità e capacità di relazionarsi con chiunque, perché non sempre è così facile guadagnarsi la fiducia di uno sconosciuto.
A volte la gente pensa che essere un soccorritore voglia dire avere mere competenze di soccorso sanitario, ma in realtà c'è molto di più di questo.
Per quanto possano essere soggettive le doti di ciascun soccorritore, è innegabile che dietro ciascuno di noi ci sia più di qualche nozione di primo soccorso, o almeno così dovrebbe essere.
Impariamo dall'esperienza ciò che ci rende dei veri soccorritori, è la strada che ci insegna, sono le persone che incrociamo.
Stasera quindi ho deciso di annoiarvi dandovi la mia personale opinione sul tipo di competenze che permette di acquisire l'attività del soccorritore.
Premetto che io di esperienze lavorative ne ho poche, causa giovane età, quindi come tanti altri miei coetanei devo barcamenarmi con quel che so.
In alcuni colloqui di lavoro mi hanno chiesto in che modo questa esperienza abbia contribuito ad arricchire le mie competenze, ed in breve ho spiegato ciò che segue.
Fare il soccorritore presuppone l'aver innanzi tutto seguito un corso di discreta durata e discreto impegno in termini di tempo e disponibilità.
Far parte di un'associazione non vuol dire, almeno per me, fare solo servizi di 118, ma anche partecipare a tutta una serie di iniziative di vario genere, dal trasporto
disabili all'assistenza ad eventi et cetera.
In soldoni, significa essere umili (e non tutti purtroppo riescono ad esserlo!) nel chiedere sempre quando non si sa o non si capisce, perché non basta il corso per essere un buon soccorritore, sappiamo tutti quanto la pratica e la teoria si distanzino.
Inoltre, a fini di colloqui di lavoro, è simpatico sottolineare che essere un soccorritore vuol dire lavorare in squadra, essere in grado di non perdere la calma se c'è qualche imprevisto perché in uscita capita sistematicamente qualcosa che non doveva succedere, e quindi entra i gioco anche una certa dose di fantasia mista a capacità di problem solving.
Essere un buon soccorritore implica anche avere una certa dose di sensibilità e capacità di relazionarsi con chiunque, perché non sempre è così facile guadagnarsi la fiducia di uno sconosciuto.
A volte la gente pensa che essere un soccorritore voglia dire avere mere competenze di soccorso sanitario, ma in realtà c'è molto di più di questo.
Per quanto possano essere soggettive le doti di ciascun soccorritore, è innegabile che dietro ciascuno di noi ci sia più di qualche nozione di primo soccorso, o almeno così dovrebbe essere.
Impariamo dall'esperienza ciò che ci rende dei veri soccorritori, è la strada che ci insegna, sono le persone che incrociamo.
giovedì 24 novembre 2011
I codici
Oggi vi ruberò due minuti per parlare un po' dei codici.
Spesso la gente ci chiede perchè alcune volte arriviamo a manetta e con la sirena, mentre a volte giriamo tranquilli (si insomma...più o meno!) come ogni altro mezzo che circola sulla strada.
La ragione sta nei codici; la Centrale Operativa quando passa la chiamata all'ambulanza più vicina al luogo dell'evento dà un codice di invio che può essere di tre tipi:
1. Codice Verde: indica una gravità minore, che non comporta la compromissione delle funzioni vitali del paziente.
2. Codice Giallo: indica una media gravità, che comporta l'assenza di stabilità delle condizioni del paziente.
3. Codice Rosso: indica la massima gravità, che comporta una pericolosa compromissione delle funzioni vitali del paziente.
Come avrete capito, per chi fosse capitato qui "per curiosità", sono solo il codice giallo e rosso che comprendono la sirena e una guida decisamente più "aggressiva".
Trovo doveroso specificare che sta nel buon senso dell'autista capire una regola fondamentale dell'uscita in emergenza: il codice stradale esiste, e per quanto la sirena ci autorizzi ad essere più "rapidi", non bisogna mai dimenticare che di essere anche lucidi e razionali nella guida, perché non ha NESSUNA utilità (né per i soccorritori, né per il paziente in attesa dei soccorsi) fare i numeri in ambulanza per andarsi magari a schiantare da qualche parte o mettere in pericolo la nostra vita e quella altrui.
Una volta arrivati nel luogo dell'evento, si valuta il paziente e a questo punto bisogna decidere come portarlo in ospedale, a seconda delle sue condizioni.
Il codice di ospedalizzazione viene deciso in modo differente a seconda delle zone; in alcune province è l'equipaggio che valuta, dà un codice e decide dove ospedalizzare, in altre province invece è la Centrale Operativa (e quindi NON la squadra) che decide tutto quanto.
In alcune realtà, i codici di ricovero del paziente non prendono più il nome dei codici di invio, ma hanno una codificazione numerica:
--> Codice 1, cioé Verde
--> Codice 2, cioé Giallo
--> Codice 3, cioé Rosso
La cosa che trovo davvero pittoresca di questi codici, è che spesso (e i soccorritori lo sanno bene) non rispecchiano la realtà, soprattutto nel caso dei codici di invio.
Un esempio: tempo fa io e squadra veniamo mandati in verde per un ricovero per accertamenti di un paziente affetto da morbo di Parkinson che aveva perso la sensibilità agli arti inferiori da qualche ora.
Una volta in posto troviamo il paziente in evidente stato di shock , aveva rilasciato, e a malapena riusciva a capire quel che gli veniva detto.
Il vero problema era che i parenti non avevano compreso per niente la gravità della situazione, e giustamente avevano riferito nella chiamata ciò che per loro era sembrato più importante.
La C.O. non è presente sul luogo dell'evento e basa la chiamata sulle informazioni ricevute dal richiedente.
La missione è terminata con un ricovero in giallo, diventato rosso in itinere.
Altro esempio: l'anno scorso veniamo chiamati per un arresto cardiocircolatorio, codice rosso.
Arriviamo in posto, pioveva a catinelle, e l'autista era stato incaricato di aspettare il medico fuori dall'edificio.
Io e una collega facciamo tre piani di scale con addosso zaino, ossigeno, DAE e aspiratore.
Entriamo nell'abitazione, è stata una scena molto "da film", devo ammetterlo, a posteriori sembrava quasi un'americanata.
Vediamo la signora stesa per terra apparentemente inerme, la badante in lacrime e la sorella urlante.
Ci siamo letteralmente buttate in scivolata per terra (una delle rarissime volte in cui il corridoio era spaziosissimo), iniziamo la valutazione e ci rendiamo conto che la signora in realtà stava schiacciando un pisolino per terra.
Dopo aver avvisato l'autista ormai fradicio di salire con noi, scopriamo che la signora era affetta da demenza senile e la badante non capiva quasi niente di italiano, tanto da far arrabbiare la signora che aveva così deciso (per buona pace mia e della mia squadra!!) di dormire per terra.
L'uscita è terminata con un ricovero in codice verde, per fare qualche accertamento.
Per evitare queste situazioni decisamente ambigue basterebbe insegnare alla popolazione come si effettua una chiamata al 118, argomento già discusso in uno dei miei precedenti post.
Aiutateci ad aiutare.
Spesso la gente ci chiede perchè alcune volte arriviamo a manetta e con la sirena, mentre a volte giriamo tranquilli (si insomma...più o meno!) come ogni altro mezzo che circola sulla strada.
La ragione sta nei codici; la Centrale Operativa quando passa la chiamata all'ambulanza più vicina al luogo dell'evento dà un codice di invio che può essere di tre tipi:
1. Codice Verde: indica una gravità minore, che non comporta la compromissione delle funzioni vitali del paziente.
2. Codice Giallo: indica una media gravità, che comporta l'assenza di stabilità delle condizioni del paziente.
3. Codice Rosso: indica la massima gravità, che comporta una pericolosa compromissione delle funzioni vitali del paziente.
Come avrete capito, per chi fosse capitato qui "per curiosità", sono solo il codice giallo e rosso che comprendono la sirena e una guida decisamente più "aggressiva".
Trovo doveroso specificare che sta nel buon senso dell'autista capire una regola fondamentale dell'uscita in emergenza: il codice stradale esiste, e per quanto la sirena ci autorizzi ad essere più "rapidi", non bisogna mai dimenticare che di essere anche lucidi e razionali nella guida, perché non ha NESSUNA utilità (né per i soccorritori, né per il paziente in attesa dei soccorsi) fare i numeri in ambulanza per andarsi magari a schiantare da qualche parte o mettere in pericolo la nostra vita e quella altrui.
Una volta arrivati nel luogo dell'evento, si valuta il paziente e a questo punto bisogna decidere come portarlo in ospedale, a seconda delle sue condizioni.
Il codice di ospedalizzazione viene deciso in modo differente a seconda delle zone; in alcune province è l'equipaggio che valuta, dà un codice e decide dove ospedalizzare, in altre province invece è la Centrale Operativa (e quindi NON la squadra) che decide tutto quanto.
In alcune realtà, i codici di ricovero del paziente non prendono più il nome dei codici di invio, ma hanno una codificazione numerica:
--> Codice 1, cioé Verde
--> Codice 2, cioé Giallo
--> Codice 3, cioé Rosso
La cosa che trovo davvero pittoresca di questi codici, è che spesso (e i soccorritori lo sanno bene) non rispecchiano la realtà, soprattutto nel caso dei codici di invio.
Un esempio: tempo fa io e squadra veniamo mandati in verde per un ricovero per accertamenti di un paziente affetto da morbo di Parkinson che aveva perso la sensibilità agli arti inferiori da qualche ora.
Una volta in posto troviamo il paziente in evidente stato di shock , aveva rilasciato, e a malapena riusciva a capire quel che gli veniva detto.
Il vero problema era che i parenti non avevano compreso per niente la gravità della situazione, e giustamente avevano riferito nella chiamata ciò che per loro era sembrato più importante.
La C.O. non è presente sul luogo dell'evento e basa la chiamata sulle informazioni ricevute dal richiedente.
La missione è terminata con un ricovero in giallo, diventato rosso in itinere.
Altro esempio: l'anno scorso veniamo chiamati per un arresto cardiocircolatorio, codice rosso.
Arriviamo in posto, pioveva a catinelle, e l'autista era stato incaricato di aspettare il medico fuori dall'edificio.
Io e una collega facciamo tre piani di scale con addosso zaino, ossigeno, DAE e aspiratore.
Entriamo nell'abitazione, è stata una scena molto "da film", devo ammetterlo, a posteriori sembrava quasi un'americanata.
Vediamo la signora stesa per terra apparentemente inerme, la badante in lacrime e la sorella urlante.
Ci siamo letteralmente buttate in scivolata per terra (una delle rarissime volte in cui il corridoio era spaziosissimo), iniziamo la valutazione e ci rendiamo conto che la signora in realtà stava schiacciando un pisolino per terra.
Dopo aver avvisato l'autista ormai fradicio di salire con noi, scopriamo che la signora era affetta da demenza senile e la badante non capiva quasi niente di italiano, tanto da far arrabbiare la signora che aveva così deciso (per buona pace mia e della mia squadra!!) di dormire per terra.
L'uscita è terminata con un ricovero in codice verde, per fare qualche accertamento.
Per evitare queste situazioni decisamente ambigue basterebbe insegnare alla popolazione come si effettua una chiamata al 118, argomento già discusso in uno dei miei precedenti post.
Aiutateci ad aiutare.
mercoledì 23 novembre 2011
S-O-C-C-O-R-R-I-T-O-R-E
Una cosa che ho notato spesso, avendo a che fare con i pazienti, è che molti di loro hanno un'immagine stereotipata e vaga del soccorritore.
Ho trovato divertente i vari "sinonimi" di soccorritore che ho sentito nella mia (per ora) breve esperienza:
- quelli dell'ambulanza (il mio preferito in assoluto!!!)
- ambulanziere
- uso improprio dei termini "medico", "infermiere" e "paramedico"
Senza contare come alcuni chiamano proprio l'ambulanza, e una delle migliori l'ho qualche settimana fa; ero di turno e veniamo chiamati per un ricovero programmato.
Al momento di caricare il paziente, la moglie ci guarda e chiede "posso salire sulla Croce Rossa?".
Una mezza risata è scappata anche a lei due nanosecondi dopo, quando ha visto le nostre facce un po' stranite, e si è corretta dicendo "si volevo dire il vostro mezzo!" e io, sorridendo, "l'ambulanza, giusto?" e lei divertita mi ha risposto "si si quello intendevo! Ci siamo capiti lo stesso!".
Farsi due risate ogni tanto è terapeutico sia per il soccorritore sia per il paziente, su questo non ho dubbi; se il turno inizia ad essere "impegnativo" già dalle prime ore, arrivare alla fine è lunga!
Mia nonna, che si diverte sempre quando le racconto qualche aneddoto dei miei turni, una volta mi chiese "ma quindi, adesso, sei un infermiere?" e io "no nonna, sono un soccorritore e basta"; lei un po' perplessa mi risponde "un cosa?" e io, a tono più alto, "un soccorritore!".
Lei mi ha guardato poco convinta e mi ha detto in dialetto "cià nana, io compro una vocale, non ho capito alla fine cosa fai!"
Il fatto è che la figura del soccorritore non è così ben chiara a tutti, non lo era nemmeno a me prima del mio ingresso nell'associazione.
Mi chiedevo spesso chi fossero "quelli dell'ambulanza" (pardon, ma anche io usavo questa terminologia qualche anno fa), cosa sapessero fare soprattutto, perchè li avevo visti poche volte e di sfuggita, e ammetto di aver ipotizzato che si trattasse dei fantomatici "paramedici".
In effetti, e credo sia in parte "colpa" dei film americani, "quelli dell'ambulanza" spesso vengono chiamati paramedici, ma di fatto qui in Italia queste figure (purtroppo) non esistono.
E' molto più facile trovare qualcuno che ci chiami "paramedici" o "infermieri" o "dottori" piuttosto che "soccorritori", almeno per quanto riguarda le mie recenti esperienze, e non è sempre facile tracciare un confine per definire la nostra figura a chi ci vede poco e quando ci vede non è proprio contento di averci davanti!
Ho trovato divertente i vari "sinonimi" di soccorritore che ho sentito nella mia (per ora) breve esperienza:
- quelli dell'ambulanza (il mio preferito in assoluto!!!)
- ambulanziere
- uso improprio dei termini "medico", "infermiere" e "paramedico"
Senza contare come alcuni chiamano proprio l'ambulanza, e una delle migliori l'ho qualche settimana fa; ero di turno e veniamo chiamati per un ricovero programmato.
Al momento di caricare il paziente, la moglie ci guarda e chiede "posso salire sulla Croce Rossa?".
Una mezza risata è scappata anche a lei due nanosecondi dopo, quando ha visto le nostre facce un po' stranite, e si è corretta dicendo "si volevo dire il vostro mezzo!" e io, sorridendo, "l'ambulanza, giusto?" e lei divertita mi ha risposto "si si quello intendevo! Ci siamo capiti lo stesso!".
Farsi due risate ogni tanto è terapeutico sia per il soccorritore sia per il paziente, su questo non ho dubbi; se il turno inizia ad essere "impegnativo" già dalle prime ore, arrivare alla fine è lunga!
Mia nonna, che si diverte sempre quando le racconto qualche aneddoto dei miei turni, una volta mi chiese "ma quindi, adesso, sei un infermiere?" e io "no nonna, sono un soccorritore e basta"; lei un po' perplessa mi risponde "un cosa?" e io, a tono più alto, "un soccorritore!".
Lei mi ha guardato poco convinta e mi ha detto in dialetto "cià nana, io compro una vocale, non ho capito alla fine cosa fai!"
Il fatto è che la figura del soccorritore non è così ben chiara a tutti, non lo era nemmeno a me prima del mio ingresso nell'associazione.
Mi chiedevo spesso chi fossero "quelli dell'ambulanza" (pardon, ma anche io usavo questa terminologia qualche anno fa), cosa sapessero fare soprattutto, perchè li avevo visti poche volte e di sfuggita, e ammetto di aver ipotizzato che si trattasse dei fantomatici "paramedici".
In effetti, e credo sia in parte "colpa" dei film americani, "quelli dell'ambulanza" spesso vengono chiamati paramedici, ma di fatto qui in Italia queste figure (purtroppo) non esistono.
E' molto più facile trovare qualcuno che ci chiami "paramedici" o "infermieri" o "dottori" piuttosto che "soccorritori", almeno per quanto riguarda le mie recenti esperienze, e non è sempre facile tracciare un confine per definire la nostra figura a chi ci vede poco e quando ci vede non è proprio contento di averci davanti!
martedì 22 novembre 2011
Una notte in 7 minuti
Sfogliando youtube ho trovato questo video, che reputo ben fatto e credo sia tra i più fedeli in merito a come si svolge una notte di turno 118.
Ovviamente le telecamere non possono arrivare dove arrivano gli occhi dei soccorritori, e allo stesso modo non possono riprendere e trasmettere le stesse sensazioni che proviamo, tuttavia lo trovo un buon reportage che in pochi minuti mostra davvero uno spezzone realistico di "vita da soccorritore".
Ovviamente le telecamere non possono arrivare dove arrivano gli occhi dei soccorritori, e allo stesso modo non possono riprendere e trasmettere le stesse sensazioni che proviamo, tuttavia lo trovo un buon reportage che in pochi minuti mostra davvero uno spezzone realistico di "vita da soccorritore".
lunedì 21 novembre 2011
Pensavi di averle viste tutte...si, pensavi!
Colgo l'occasione di raccontare quel che è successo a me e squadra di recente, perché per fortuna nessuno si è fatto male e abbiamo potuto farci due risate...della serie che un soccorritore non smette MAI di stupirsi, perché se pensi di averle viste tutte, beh ti sbagli.Veniamo chiamati circa alle 8 del mattino, l'operatore della Centrale Operativa ci dice di andare a verificare su una strada provinciale cos'era successo, in quanto un passante aveva chiamato perché c'era una persona su una macchina ferma a lato della strada (che al mattino è molto trafficata).
Non sapendo bene cosa aspettarci, ci dirigiamo in loco, e troviamo questa Panda che avrà avuto almeno 20 anni, con il parabrezza distrutto.
I Carabinieri erano sul posto e parlavano col sedicente conducente, che non aveva un graffio.
A colpo d'occhio non riuscivamo a capire: conducente illeso, macchina da buttare con segni di un urto abbastanza violento, eppure non c'era niente o nessuno contro cui sbattere.
Ci avviciniamo, presentandoci, e il conducente dell'auto ci guarda stranito "ma io non ho mica chiamato l'ambulanza!".
"Siamo stati allertati da un passante" precisa il caposquadra "ma cos'è successo? Noi dobbiamo comunque riferire in Centrale cosa abbiamo trovato".
Vediamo i due Carabinieri che se la ridevano tra di loro, e il conducente un po' interdetto.
"Il responsabile dell'incidente è scappato nei boschi!" ci ha detto uno dei Carabinieri.
"C'era un'altra persona?!" chiediamo vagamente preoccupati.
Questi si guardano in faccia ridendo, e il conducente ci dice seccato "Un cervo! Un cervo mi ha attraversato la strada, ho provato ad evitare, ma mi è venuto addosso e poi è scappato!".
Ammetto di aver cercato di trattenere una risata, sempre più difficile da soffocare quando l'operatore della Centrale ci ha chiesto: "E come sta?" e il caposquadra ha iniziato a parlare del paziente, ma l'operatore interrompendolo gli dice "No il paziente! Il cervo!".
Appurato che il cervo se n'era andato, un po' barcollante, ma sulle sue zampe, abbiamo portato via il paziente scoprendo che l'incidente era avevvenuto ben due ore prima, ma i Carabinieri erano arrivati sul posto ben due ore dopo, e noi eravamo stati allertati per caso.
Esito della missione?
AUTO 0
CERVO 1
Non sapendo bene cosa aspettarci, ci dirigiamo in loco, e troviamo questa Panda che avrà avuto almeno 20 anni, con il parabrezza distrutto.
I Carabinieri erano sul posto e parlavano col sedicente conducente, che non aveva un graffio.
A colpo d'occhio non riuscivamo a capire: conducente illeso, macchina da buttare con segni di un urto abbastanza violento, eppure non c'era niente o nessuno contro cui sbattere.
Ci avviciniamo, presentandoci, e il conducente dell'auto ci guarda stranito "ma io non ho mica chiamato l'ambulanza!".
"Siamo stati allertati da un passante" precisa il caposquadra "ma cos'è successo? Noi dobbiamo comunque riferire in Centrale cosa abbiamo trovato".
Vediamo i due Carabinieri che se la ridevano tra di loro, e il conducente un po' interdetto.
"Il responsabile dell'incidente è scappato nei boschi!" ci ha detto uno dei Carabinieri.
"C'era un'altra persona?!" chiediamo vagamente preoccupati.
Questi si guardano in faccia ridendo, e il conducente ci dice seccato "Un cervo! Un cervo mi ha attraversato la strada, ho provato ad evitare, ma mi è venuto addosso e poi è scappato!".
Ammetto di aver cercato di trattenere una risata, sempre più difficile da soffocare quando l'operatore della Centrale ci ha chiesto: "E come sta?" e il caposquadra ha iniziato a parlare del paziente, ma l'operatore interrompendolo gli dice "No il paziente! Il cervo!".
Appurato che il cervo se n'era andato, un po' barcollante, ma sulle sue zampe, abbiamo portato via il paziente scoprendo che l'incidente era avevvenuto ben due ore prima, ma i Carabinieri erano arrivati sul posto ben due ore dopo, e noi eravamo stati allertati per caso.
Esito della missione?
AUTO 0
CERVO 1
domenica 20 novembre 2011
Occhi Blu
Una mattina mi è capitato di affrontare una situazione che ammetto mi ha letteralmente stretto il cuore.
In generale, i pazienti che mi toccano più emotivamente sono gli anziani.
Sono le persone che spesso vivono il disagio maggiore, chi perchè abbandonato, chi perchè divorato da varie ed eventuali malattie...ognuno con la sua storia, e quello che mi fa male è vedere che la solitudine non guarda in faccia proprio a nessuno.
Con questo non dico che non ci sia il lieto fine, anzi! Per fortuna non per tutti la vecchiaia è un'agonia di solitudine.
La signora di stamattina ad esempio sola non era, anzi...e per la sua età era ancora bella forte.
Veniamo chiamati per un codice rosso, persona incosciente.
Quando la Centrale Operativa chiama per un "rosso, incosciente" al nostro arrivo troviamo due tipi di situazione:
1. Un vero codice rosso
2. Un paziente le cui condizioni sono state travisate completamente da parenti e simili
Per fortuna la signora di questa mattina rientrava nel secondo caso.
Scendemmo dall'ambulanza, volammo letteralmente in casa e la trovammo per terra in cucina con del sangue spalmato sul pavimento.
La chiamai, la scossi e lei aprì gli occhi piano.
"Signora mi sente? Mi vede?" le chiesi, e lei con uno sguardo disorientato e spaventato mi fece cenno di sì.
Tirammo un sospiro di sollievo.
Avvisammo la Centrale, prendemmo i parametri ed iniziammo a prenderci cura di lei; nel frattempo arrivò il medico rianimatore in posto con l'automedica, che io e squadra aiutammo.
La signora era spaventatissima, e parlando con la sua famiglia venni a sapere che anche il giorno prima aveva avuto un malore ed era stata portata al pronto soccorso, dove aveva firmato i moduli per la dimissione.
Mi scappò un sorriso alla puntualizzazione del figlio della signora "è dura mia mamma! Se si impunta, non c'è niente da fare, ha ragione lei".
Vedere quella persona forte così indifesa e spaventata mi strinse il cuore.
Leggevo nei suoi occhi la paura di chi senza rendersene conto si trova per terra, circondata da estranei con strane tute colorate che dicono cose incomprensibili, senza sapere come, quando e perché.
Una volta caricata, cercammo di rassicurarla.
Si lamentava appena del dolore causato dalla caduta e dall'agocanula che le aveva infilato nel braccio l'infermiere; la voce bassa e tremula tradiva il suo smarrimento più totale.
Era in un'ambulanza, per la seconda volta in due giorni, con un ago nel braccio, legata come un salame su una scomoda tavola rigida, circondata da ben 4 estranei che la chiamavano e le parlavano, ma forse lei nemmeno riusciva a capire.
Arrivati in pronto soccorso, la sbarellammo e mi venne del tutto naturale accarezzarle la testa mentre la muovevamo sul lettino, probabilmente facendole anche male (e purtroppo era inevitabile, andava spostata).
"Signora, mi raccomando, non scappi dal pronto soccorso, questa volta lasci che i dottori scoprano cosa c'è che non va! Poi torna a casa con calma, promesso?" e lei mi fece cenno di si, piano piano.
Prima di uscire presi un lenzuolo del PS e la coprii, altrimenti avrebbe avuto freddo come quando la spostammo sulla nostra barella...forse, un po' ingenuamente, pensai che magari con un lenzuolo si sarebbe sentita un po' meno indifesa.
In generale, i pazienti che mi toccano più emotivamente sono gli anziani.
Sono le persone che spesso vivono il disagio maggiore, chi perchè abbandonato, chi perchè divorato da varie ed eventuali malattie...ognuno con la sua storia, e quello che mi fa male è vedere che la solitudine non guarda in faccia proprio a nessuno.
Con questo non dico che non ci sia il lieto fine, anzi! Per fortuna non per tutti la vecchiaia è un'agonia di solitudine.
La signora di stamattina ad esempio sola non era, anzi...e per la sua età era ancora bella forte.
Veniamo chiamati per un codice rosso, persona incosciente.
Quando la Centrale Operativa chiama per un "rosso, incosciente" al nostro arrivo troviamo due tipi di situazione:
1. Un vero codice rosso
2. Un paziente le cui condizioni sono state travisate completamente da parenti e simili
Per fortuna la signora di questa mattina rientrava nel secondo caso.
Scendemmo dall'ambulanza, volammo letteralmente in casa e la trovammo per terra in cucina con del sangue spalmato sul pavimento.
La chiamai, la scossi e lei aprì gli occhi piano.
"Signora mi sente? Mi vede?" le chiesi, e lei con uno sguardo disorientato e spaventato mi fece cenno di sì.
Tirammo un sospiro di sollievo.
Avvisammo la Centrale, prendemmo i parametri ed iniziammo a prenderci cura di lei; nel frattempo arrivò il medico rianimatore in posto con l'automedica, che io e squadra aiutammo.
La signora era spaventatissima, e parlando con la sua famiglia venni a sapere che anche il giorno prima aveva avuto un malore ed era stata portata al pronto soccorso, dove aveva firmato i moduli per la dimissione.
Mi scappò un sorriso alla puntualizzazione del figlio della signora "è dura mia mamma! Se si impunta, non c'è niente da fare, ha ragione lei".
Vedere quella persona forte così indifesa e spaventata mi strinse il cuore.
Leggevo nei suoi occhi la paura di chi senza rendersene conto si trova per terra, circondata da estranei con strane tute colorate che dicono cose incomprensibili, senza sapere come, quando e perché.
Una volta caricata, cercammo di rassicurarla.
Si lamentava appena del dolore causato dalla caduta e dall'agocanula che le aveva infilato nel braccio l'infermiere; la voce bassa e tremula tradiva il suo smarrimento più totale.
Era in un'ambulanza, per la seconda volta in due giorni, con un ago nel braccio, legata come un salame su una scomoda tavola rigida, circondata da ben 4 estranei che la chiamavano e le parlavano, ma forse lei nemmeno riusciva a capire.
Arrivati in pronto soccorso, la sbarellammo e mi venne del tutto naturale accarezzarle la testa mentre la muovevamo sul lettino, probabilmente facendole anche male (e purtroppo era inevitabile, andava spostata).
"Signora, mi raccomando, non scappi dal pronto soccorso, questa volta lasci che i dottori scoprano cosa c'è che non va! Poi torna a casa con calma, promesso?" e lei mi fece cenno di si, piano piano.
Prima di uscire presi un lenzuolo del PS e la coprii, altrimenti avrebbe avuto freddo come quando la spostammo sulla nostra barella...forse, un po' ingenuamente, pensai che magari con un lenzuolo si sarebbe sentita un po' meno indifesa.
sabato 19 novembre 2011
Il primo arresto non si scorda mai
Chiacchierando del più e del meno con altri soccorritori, mi rendo conto che di tutti gli interventi più allucinanti che possano capitarci (e ne capitano, fidatevi!) ce n'è uno in particolare che desta preoccupazione: l'uscita su un ACC, tradotto --> Arresto Cardio-Circolatorio.
Tecnicamente è forse l'intervento meno problematico, proprio perché esiste un protocollo ben preciso da rispettare, e c'è meno margine di "iniziativa&inventiva" in proposito.
Praticamente però è tutta un'altra storia.
Di ACC, fino ad ora, nella mia breve carriera di soccorritore ne ho visti 2 e mezzo.
Dico 2 e mezzo perché l'ultimo semi-arresto è stato tamponato da me e da una mia collega, ma viste le condizioni di quel paziente si trattava di una "fortuna temporanea".
Per quanto riguarda gli altri due interventi, li ricordo chiaramente entrambi.
Il primo ACC fu un intervento al quale ebbi la fortuna di assistere come neocertificata e quindi quarto-uomo dell'equipaggio.
Ho aiutato la squadra in ogni modo senza tuttavia intervenire direttamente sul paziente, essendo una delle mie prime missioni da soccorritore certificato.
In quel modo quindi ebbi la possibilità di vedere come si sarebbe dovuto svolgere l'intervento, e mi resi conto al volo di una cosa che non si può realizzare durante il corso di addestramento: avere a che fare con un manichino è una cosa, avere a che fare con il corpo di una persona è tutt'altro.
La signora Marta, 98 anni, aveva deciso che era il momento di andarsene.
Era in stato vegetativo da mesi, e quella mattina abbiamo cercato senza risultato di non lasciarla andare.
La parte più dura dell'intervento fu assistere la figlia della signora, rimasta praticamente sola, mentre il medico dichiarava il decesso.
Il secondo intervento invece, molto più recente, lo affrontai come operatore DAE.
L'operatore DAE è un soccorritore certificato per l'utilizzo del defibrillatore semiautomatico che all'occorrenza (leggasi: in caso di ACC) prende le redini della situazione dirigendo l'intervento sul paziente.
Quella mattina ci chiamarono per una persona con sospetto malore in strada, ci diedero un codice giallo, quindi sirena.
Arrivando in posto trovammo riverso sulla strada Mario, con la bicicletta ancora incastrata tra le gambe e le cui condizioni erano abbastanza evidenti nonostante fossimo ad alcuni metri di distanza.
Una volta spostata la bici e allontanato gli astanti, constatai l'assenza di coscienza e iniziai le manovre di RCP; fu così che scoprii che il massaggio cardiaco su un manichino non ha nulla a che vedere con quello su un corpo umano.
I sussulti e la resistenza di un corpo esanime che si piega ad ogni compressione, la sensazione della pelle fredda sotto i guanti, le costole che cedono sotto le dita...è qualcosa che non si impara in un'aula di un corso.
Successivamente attaccai il defibrillatore, che comunque non consentì, il decesso venne dichiarato diversi minuti dopo dal medico arrivato in posto.
Quando dicono che la vera maestra del soccorritore è la strada, non sbagliano; certe cose non le si imparano al corso per aspiranti soccorritori, ma ce le insegna l'esperienza.
Non sapevo se ero pronta a sentire il gelo di un corpo senza vita sotto le mani, se ero pronta a premere il bottone "scarica" della macchina, se ero pronta a praticare un massaggio cardiaco su una persona vera...se ero pronta a fare a pugni con la morte.
Eppure appena messo piede giù dall'ambulanza, una calma irreale mi prese di colpo, come se quello che stavo per fare fosse la cosa più naturale del mondo, come se non fosse la prima volta...e invece lo era, ma me ne resi conto soltanto dopo, nel momento in cui fui davanti ad una tazza di té caldo con la mia squadra.
Tecnicamente è forse l'intervento meno problematico, proprio perché esiste un protocollo ben preciso da rispettare, e c'è meno margine di "iniziativa&inventiva" in proposito.
Praticamente però è tutta un'altra storia.
Di ACC, fino ad ora, nella mia breve carriera di soccorritore ne ho visti 2 e mezzo.
Dico 2 e mezzo perché l'ultimo semi-arresto è stato tamponato da me e da una mia collega, ma viste le condizioni di quel paziente si trattava di una "fortuna temporanea".
Per quanto riguarda gli altri due interventi, li ricordo chiaramente entrambi.
Il primo ACC fu un intervento al quale ebbi la fortuna di assistere come neocertificata e quindi quarto-uomo dell'equipaggio.
Ho aiutato la squadra in ogni modo senza tuttavia intervenire direttamente sul paziente, essendo una delle mie prime missioni da soccorritore certificato.
In quel modo quindi ebbi la possibilità di vedere come si sarebbe dovuto svolgere l'intervento, e mi resi conto al volo di una cosa che non si può realizzare durante il corso di addestramento: avere a che fare con un manichino è una cosa, avere a che fare con il corpo di una persona è tutt'altro.
La signora Marta, 98 anni, aveva deciso che era il momento di andarsene.
Era in stato vegetativo da mesi, e quella mattina abbiamo cercato senza risultato di non lasciarla andare.
La parte più dura dell'intervento fu assistere la figlia della signora, rimasta praticamente sola, mentre il medico dichiarava il decesso.
Il secondo intervento invece, molto più recente, lo affrontai come operatore DAE.
L'operatore DAE è un soccorritore certificato per l'utilizzo del defibrillatore semiautomatico che all'occorrenza (leggasi: in caso di ACC) prende le redini della situazione dirigendo l'intervento sul paziente.
Quella mattina ci chiamarono per una persona con sospetto malore in strada, ci diedero un codice giallo, quindi sirena.
Arrivando in posto trovammo riverso sulla strada Mario, con la bicicletta ancora incastrata tra le gambe e le cui condizioni erano abbastanza evidenti nonostante fossimo ad alcuni metri di distanza.
Una volta spostata la bici e allontanato gli astanti, constatai l'assenza di coscienza e iniziai le manovre di RCP; fu così che scoprii che il massaggio cardiaco su un manichino non ha nulla a che vedere con quello su un corpo umano.
I sussulti e la resistenza di un corpo esanime che si piega ad ogni compressione, la sensazione della pelle fredda sotto i guanti, le costole che cedono sotto le dita...è qualcosa che non si impara in un'aula di un corso.
Successivamente attaccai il defibrillatore, che comunque non consentì, il decesso venne dichiarato diversi minuti dopo dal medico arrivato in posto.
Quando dicono che la vera maestra del soccorritore è la strada, non sbagliano; certe cose non le si imparano al corso per aspiranti soccorritori, ma ce le insegna l'esperienza.
Non sapevo se ero pronta a sentire il gelo di un corpo senza vita sotto le mani, se ero pronta a premere il bottone "scarica" della macchina, se ero pronta a praticare un massaggio cardiaco su una persona vera...se ero pronta a fare a pugni con la morte.
Eppure appena messo piede giù dall'ambulanza, una calma irreale mi prese di colpo, come se quello che stavo per fare fosse la cosa più naturale del mondo, come se non fosse la prima volta...e invece lo era, ma me ne resi conto soltanto dopo, nel momento in cui fui davanti ad una tazza di té caldo con la mia squadra.
giovedì 17 novembre 2011
Esperienze
Oggi vorrei scrivere traendo spunto dalla domanda che mi hanno fatto quasi tutti quelli a cui ho detto "sono un soccorritore", ovvero: "Ma qual è la cosa più brutta in assoluto che hai visto e che ti ha shockato?".
Quando mi fanno questa domanda, restano sempre "delusi" dalla mia risposta: le cose che mi hanno impressionato di più non le ho viste in servizio 118, ma avendo a che fare coi cosiddetti "servizi secondari", cioè trasporti di vario genere (disabili, dializzati, persone che devono andare in ospedale a fare visite et similia) nei quali ho avuto a che fare con molte persone che hanno avuto modo di condividere con me le loro esperienze di vita.
Quando sono di servizio 118 mi aspetto di dover affrontare situazioni critiche, e crescendo mi sono scoperta una persona difficilmente impressionabile, tuttavia avere a che fare con persone che non necessitano dell'ambulanza per un'emergenza, mi ha permesso di approfondire il rapporto col paziente, tanto da rimanerne a volte un po' "impressionata".
Una volta accompagnai una signora, Elisa, paziente di una casa di riposo, a fare una radiografia; con me e il mio collega c'era anche il figlio della signora, che lei si ostinava a non chiamare per nome.
Una volta arrivati in ospedale, la signora Elisa pregò me (e non suo figlio) di accompagnarla per la radiografia, e la cosa mi mise un po' in imbarazzo; alla fine acconsentii al volere di Elisa, che nel frattempo mi raccontò di come si sentisse trascurata dal suo unico figlio, che proprio nel momento della vecchiaia aveva deciso di abbandonarla in casa di riposo per dedicarsi ai suoi impegni senza avere pesi sulle spalle.
Mi disse che preferiva me a farle compagnia perché anche se non mi avrebbe probabilmente rivista, in quel momento le stavo dando tutte le attenzioni di cui lei sentiva di avere bisogno e mi ringraziò di averle strappato un sorriso.
Riconosco di essere una persona fortunata, e fino al mio ingresso in associazione ignoravo completamente come erano le vite degli altri, pur sapendo che c'era chi era più o meno fortunato di me.
Episodi di questo tipo si ripetono spesso, pazienti che decidono di confessare a noi soccorritori cose che noi portiamo sempre dentro, che ci aiutano a crescere, ma che certe volte fanno male.
Fanno male perchè noi, in quei momenti, non possiamo fare altro che ascoltare...siamo impotenti davanti a ferite che non si curano con disinfettante o acqua ossigenata, possiamo solo dare la nostra attenzione, la nostra presenza, la nostra disponibilità, anche questo è "essere soccorritori".
Per questo motivo, parlo personalmente, disprezzo tutti coloro che trattano i pazienti con sufficienza e superficialità, perchè ognuno di loro ha una sua storia che li ha portati a trovarsi, volenti o nolenti (e il più delle volte, nolenti) sulla nostra barella.
Con questo, naturalmente, non dico di "portarsi le cose a casa", perché a mio parere chi si porta a casa queste cose, chi non riesce a smettere di pensarci anche dopo il servizio, forse dovrebbe imparare a distaccarsi.
Bisogna dare il 100% ad ogni persona, e se ci portiamo il fagotto di quella precedente, allora la resa sarà sempre decrescente e non lo trovo giusto nei confronti di chi arriva dopo.
Una volta lasciato il paziente in ospedale o a casa ritengo conclusa la missione, per me finisce lì; altri invece, per ragioni più o meno personali, faticano a distaccarsi, a capire che bisogna tornare operativi subito, bisogna essere pronti subito a dare il massimo per chiunque altro ne abbia bisogno in qualsiasi momento.
Credo che ogni soccorritore debba fare tesoro di ogni esperienza che fa, ma senza lasciare che queste esperienze lo inghiottano, altrimenti diventa sempre più difficile.
Quando mi fanno questa domanda, restano sempre "delusi" dalla mia risposta: le cose che mi hanno impressionato di più non le ho viste in servizio 118, ma avendo a che fare coi cosiddetti "servizi secondari", cioè trasporti di vario genere (disabili, dializzati, persone che devono andare in ospedale a fare visite et similia) nei quali ho avuto a che fare con molte persone che hanno avuto modo di condividere con me le loro esperienze di vita.
Quando sono di servizio 118 mi aspetto di dover affrontare situazioni critiche, e crescendo mi sono scoperta una persona difficilmente impressionabile, tuttavia avere a che fare con persone che non necessitano dell'ambulanza per un'emergenza, mi ha permesso di approfondire il rapporto col paziente, tanto da rimanerne a volte un po' "impressionata".
Una volta accompagnai una signora, Elisa, paziente di una casa di riposo, a fare una radiografia; con me e il mio collega c'era anche il figlio della signora, che lei si ostinava a non chiamare per nome.
Una volta arrivati in ospedale, la signora Elisa pregò me (e non suo figlio) di accompagnarla per la radiografia, e la cosa mi mise un po' in imbarazzo; alla fine acconsentii al volere di Elisa, che nel frattempo mi raccontò di come si sentisse trascurata dal suo unico figlio, che proprio nel momento della vecchiaia aveva deciso di abbandonarla in casa di riposo per dedicarsi ai suoi impegni senza avere pesi sulle spalle.
Mi disse che preferiva me a farle compagnia perché anche se non mi avrebbe probabilmente rivista, in quel momento le stavo dando tutte le attenzioni di cui lei sentiva di avere bisogno e mi ringraziò di averle strappato un sorriso.
Riconosco di essere una persona fortunata, e fino al mio ingresso in associazione ignoravo completamente come erano le vite degli altri, pur sapendo che c'era chi era più o meno fortunato di me.
Episodi di questo tipo si ripetono spesso, pazienti che decidono di confessare a noi soccorritori cose che noi portiamo sempre dentro, che ci aiutano a crescere, ma che certe volte fanno male.
Fanno male perchè noi, in quei momenti, non possiamo fare altro che ascoltare...siamo impotenti davanti a ferite che non si curano con disinfettante o acqua ossigenata, possiamo solo dare la nostra attenzione, la nostra presenza, la nostra disponibilità, anche questo è "essere soccorritori".
Per questo motivo, parlo personalmente, disprezzo tutti coloro che trattano i pazienti con sufficienza e superficialità, perchè ognuno di loro ha una sua storia che li ha portati a trovarsi, volenti o nolenti (e il più delle volte, nolenti) sulla nostra barella.
Con questo, naturalmente, non dico di "portarsi le cose a casa", perché a mio parere chi si porta a casa queste cose, chi non riesce a smettere di pensarci anche dopo il servizio, forse dovrebbe imparare a distaccarsi.
Bisogna dare il 100% ad ogni persona, e se ci portiamo il fagotto di quella precedente, allora la resa sarà sempre decrescente e non lo trovo giusto nei confronti di chi arriva dopo.
Una volta lasciato il paziente in ospedale o a casa ritengo conclusa la missione, per me finisce lì; altri invece, per ragioni più o meno personali, faticano a distaccarsi, a capire che bisogna tornare operativi subito, bisogna essere pronti subito a dare il massimo per chiunque altro ne abbia bisogno in qualsiasi momento.
Credo che ogni soccorritore debba fare tesoro di ogni esperienza che fa, ma senza lasciare che queste esperienze lo inghiottano, altrimenti diventa sempre più difficile.
mercoledì 16 novembre 2011
Il soccorritore e gli insulti...!
E' curioso che (purtroppo) spesso e volentieri un soccorritore si senta letteralmente insultare o urlare contro direttamente dal paziente o dai suoi parenti, piuttosto che dagli astanti...insomma, da chiunque.
Non è vittimismo questo, per carità!
E' giusto una constatazione: a quasi tutti i soccorritori sarà capitato di venire insultati per svariati motivi.
Gli insulti più gettonati? Uhm...questi, in scala, sono quelli che ho sentito con le mie orecchie (e spesso destinati anche a me in prima persona) in ordine di frequenza:
1. "Ma quanto ci mettete ad arrivare?? Ho chiamato da tantissimo, vi siete fermati a fabbricare l'ambulanza??"
2. "Ahia mi fate male *@/!!??^§x€$% "(questa serie di simboli sostituisce vari ed eventuali pesanti insulti rivolti dal paziente dolorante che dobbiamo trattare)
3. "Siete dei babbei a non farvi pagare per quello che fate, è da fessi"
4. "Ma cosa vi ho chiamato a fare se poi non potete dargli i farmaci?? Siete inutili, non sapete fare niente!"
5. Vari ed eventuali insulti personali, dettati da inclinazioni personali del paziente.
Ovviamente la maggior parte di noi continua a sorridere, magari cercando di fermare la rispostaccia che ci viene sulla punta della lingua, e si impegna per il bene del paziente e della nostra certificazione, che non abbiamo voglia di farci stracciare per qualche parolaccia.
Altri meno tolleranti finiscono col rispondere a tono a chi li ha appena insultati.
Io personalmente sono del partito "Ignora&Lavora"; insulti ne ho presi anche io, nonostante la mia non lunghissima esperienza come soccorritore, ma ho sempre ignorato la cosa e seguitato con il mio lavoro, limitandomi ad invitare paziente (o chi per esso) ad abbassare i toni.
C'è da dire che posso comprendere chi insulta per il dolore...al loro posto, FORSE lo fare anche io...una volta andammo a prendere un uomo con le gambe incastrate sotto quintali di macerie, e il dolore era così forte che a malapena capiva cosa gli stavamo dicendo e riusciva solo ad insultare.
Quando la mia collega lo informò che le sirene in lontananza erano dei Vigili del Fuoco stavano arrivando per liberarlo dalla capanna che gli era franata addosso, la risposta fu "fanculo, mi state raccontando cazzate, mi fa male! Cazzo! Stronzi!" e questa fine espressione lirica andò avanti per un po'.
Con questo non giustifico la maleducazione, però spezzo una lancia a favore di chi è "annebbiato dal dolore".
Tuttavia è bene spiegare una cosa che spesso la gente non sa (e che nemmeno io sapevo, giustamente, prima di entrare a far parte dell'associazione) perché nessuno si disturba a parlare di queste cose: quando chiamate il 118 non avete la linea diretta con "quelli dell'ambulanza", ma solo con una Centrale Operativa, che in base alle informazioni che ha decide di mandare il mezzo sul posto.Il fatto è che parecchi, al nostro arrivo, se ne escono con infelici esclamazioni tipo "siete arrivati tardi", oppure "ma dov'eravate, a fabbricare l'ambulanza?", non sapendo che a volte l'ambulanza che arriva non è la più vicina, ma la prima disponibile, che si spera coincida con la più vicina, ma spesso sappiamo tutti che non è così...il concetto di vicinanza, soprattutto in contesti "periferici" come il mio, è tutto relativo.
Gli insulti preferiti dagli anziani invece sono quelli di chi dice che è "da idioti" lavorare senza essere pagati; è ovvio, non si parla dei dipendenti, ma solo dei volontari.
Spesso è complicato spiegare cosa ci muove a dare il nostro tempo e il nostro impegno, dedicandolo ad altri e non a noi stessi, perchè finiamo per passare per degli "stupidi che si fanno sfruttare" [Cit. di un paziente].
Dulcis infundo, gli insulti più fantasiosi io personalmente li ho presi da un paziente dichiaratamente misogino, che ha dato luogo ad un teatrino quasi imbarazzante.
Si rifiutava di parlare con me, nonostante fossi il caposquadra, e chiese svariate volte ai miei due colleghi uomini perché prendessero ordini da "una come me".
Resami conto che non avrei ottenuto niente da lui direttamente, lasciai che i miei due colleghi prendessero tutte le informazioni del caso e valutassero il paziente mentre io mi occupavo della documentazione ospedaliera.
Al momento di caricare il simpatico sessantenne, gli dissi "mi raccomando, stia fermo perché sennò si bagna tutto!" visto che pioveva a catinelle e noi l'avevamo coperto per evitare che si inzuppasse.
Non disse una parola finché la barella non fu caricata e le porte del mezzo si chiusero; appena si rese conto di essere da solo con me e il mio collega, mentre l'autista metteva in moto, iniziò a girarsi sulla barella per darmi fisicamente le spalle.
Alla mia domanda "ma cosa sta facendo?" la risposta fu "voi donne siete delle succhia-ca**i".
Da lì all'arrivo in ospedale ogni mio tentativo di capire se era tutto a posto fu vano, così di comune accordo si occupò del "dialogo col paziente" il mio collega.
Ovviamente, scaricato Mr Misoginia, io mi sono fatta una bella risata...ridevano un po' di meno i miei due colleghi, che non avevano molto digerito la situazione.
Però devo anche ammettere che, quando la situazione lo permette, ridere degli insulti che ci si becca è un buon diversivo specie se il turno è ancora lungo!
Non è vittimismo questo, per carità!
E' giusto una constatazione: a quasi tutti i soccorritori sarà capitato di venire insultati per svariati motivi.
Gli insulti più gettonati? Uhm...questi, in scala, sono quelli che ho sentito con le mie orecchie (e spesso destinati anche a me in prima persona) in ordine di frequenza:
1. "Ma quanto ci mettete ad arrivare?? Ho chiamato da tantissimo, vi siete fermati a fabbricare l'ambulanza??"
2. "Ahia mi fate male *@/!!??^§x€$% "(questa serie di simboli sostituisce vari ed eventuali pesanti insulti rivolti dal paziente dolorante che dobbiamo trattare)
3. "Siete dei babbei a non farvi pagare per quello che fate, è da fessi"
4. "Ma cosa vi ho chiamato a fare se poi non potete dargli i farmaci?? Siete inutili, non sapete fare niente!"
5. Vari ed eventuali insulti personali, dettati da inclinazioni personali del paziente.
Ovviamente la maggior parte di noi continua a sorridere, magari cercando di fermare la rispostaccia che ci viene sulla punta della lingua, e si impegna per il bene del paziente e della nostra certificazione, che non abbiamo voglia di farci stracciare per qualche parolaccia.
Altri meno tolleranti finiscono col rispondere a tono a chi li ha appena insultati.
Io personalmente sono del partito "Ignora&Lavora"; insulti ne ho presi anche io, nonostante la mia non lunghissima esperienza come soccorritore, ma ho sempre ignorato la cosa e seguitato con il mio lavoro, limitandomi ad invitare paziente (o chi per esso) ad abbassare i toni.
C'è da dire che posso comprendere chi insulta per il dolore...al loro posto, FORSE lo fare anche io...una volta andammo a prendere un uomo con le gambe incastrate sotto quintali di macerie, e il dolore era così forte che a malapena capiva cosa gli stavamo dicendo e riusciva solo ad insultare.
Quando la mia collega lo informò che le sirene in lontananza erano dei Vigili del Fuoco stavano arrivando per liberarlo dalla capanna che gli era franata addosso, la risposta fu "fanculo, mi state raccontando cazzate, mi fa male! Cazzo! Stronzi!" e questa fine espressione lirica andò avanti per un po'.
Con questo non giustifico la maleducazione, però spezzo una lancia a favore di chi è "annebbiato dal dolore".
Tuttavia è bene spiegare una cosa che spesso la gente non sa (e che nemmeno io sapevo, giustamente, prima di entrare a far parte dell'associazione) perché nessuno si disturba a parlare di queste cose: quando chiamate il 118 non avete la linea diretta con "quelli dell'ambulanza", ma solo con una Centrale Operativa, che in base alle informazioni che ha decide di mandare il mezzo sul posto.Il fatto è che parecchi, al nostro arrivo, se ne escono con infelici esclamazioni tipo "siete arrivati tardi", oppure "ma dov'eravate, a fabbricare l'ambulanza?", non sapendo che a volte l'ambulanza che arriva non è la più vicina, ma la prima disponibile, che si spera coincida con la più vicina, ma spesso sappiamo tutti che non è così...il concetto di vicinanza, soprattutto in contesti "periferici" come il mio, è tutto relativo.
Gli insulti preferiti dagli anziani invece sono quelli di chi dice che è "da idioti" lavorare senza essere pagati; è ovvio, non si parla dei dipendenti, ma solo dei volontari.
Spesso è complicato spiegare cosa ci muove a dare il nostro tempo e il nostro impegno, dedicandolo ad altri e non a noi stessi, perchè finiamo per passare per degli "stupidi che si fanno sfruttare" [Cit. di un paziente].
Dulcis infundo, gli insulti più fantasiosi io personalmente li ho presi da un paziente dichiaratamente misogino, che ha dato luogo ad un teatrino quasi imbarazzante.
Si rifiutava di parlare con me, nonostante fossi il caposquadra, e chiese svariate volte ai miei due colleghi uomini perché prendessero ordini da "una come me".
Resami conto che non avrei ottenuto niente da lui direttamente, lasciai che i miei due colleghi prendessero tutte le informazioni del caso e valutassero il paziente mentre io mi occupavo della documentazione ospedaliera.
Al momento di caricare il simpatico sessantenne, gli dissi "mi raccomando, stia fermo perché sennò si bagna tutto!" visto che pioveva a catinelle e noi l'avevamo coperto per evitare che si inzuppasse.
Non disse una parola finché la barella non fu caricata e le porte del mezzo si chiusero; appena si rese conto di essere da solo con me e il mio collega, mentre l'autista metteva in moto, iniziò a girarsi sulla barella per darmi fisicamente le spalle.
Alla mia domanda "ma cosa sta facendo?" la risposta fu "voi donne siete delle succhia-ca**i".
Da lì all'arrivo in ospedale ogni mio tentativo di capire se era tutto a posto fu vano, così di comune accordo si occupò del "dialogo col paziente" il mio collega.
Ovviamente, scaricato Mr Misoginia, io mi sono fatta una bella risata...ridevano un po' di meno i miei due colleghi, che non avevano molto digerito la situazione.
Però devo anche ammettere che, quando la situazione lo permette, ridere degli insulti che ci si becca è un buon diversivo specie se il turno è ancora lungo!
martedì 15 novembre 2011
Aiutaci ad aiutare - la chiamata al 118
Spesso e volentieri un soccorritore deve misurarsi con un tipo di situazione particolare, dove a volte il suo approccio può essere decisivo...pur senza mettere piede sull'ambulanza.
Di cosa parlo? Delle telefonate naturalmente!
Sarà capitato alla maggioranza di voi di essere nella vostra sede e sentire il telefono della linea urbana suonare; normalmente rispondendo, diciamo "Nomedellassociazione, buongiorno?".
La risposta di solito non si fa attendere, e può essere di 4 tipi:
1. Normali domande di persone che chiamano perché interessate a comunicare con l'associazione in questione, per servizi et similia
2. "Parlo con il 118?"
3. "Ho bisogno di aiuto, pincolpallino sta male, venite con l'ambulanza!"
4. "Mi serve il farmacoX perché sto male, venite ad aiutarmi!"
Il vero problema in queste situazioni è che chiamare la linea diretta dell'associazione è completamente inutile.
L'unico numero da fare è il 118, perché è l'unico che ha la possibilità di decidere se e quando mandare il mezzo di soccorso.
Purtroppo però non tutti sono al corrente di questo dettaglio, e sta anche nella prontezza del soccorritore dare alla persona al telefono le giuste istruzioni per far capire nel minor tempo possibile come procede nella maniera corretta, e non sempre è facile perchè spesso le persone che chiamano sono talmente agitate e preoccupate che farsi capire diventa un'impresa.
E' capitato anche a me di trovarmi al telefono ripetendo tre o quattro volte "deve chiamare il 118, non noi" mentre la persona dall'altra parte mi vomitava addosso parole e urla.
L'unico modo è rassicurare e indirizzare la persona, senza dimenticare di fare nessuna delle due cose.
Imponendo la calma, diventano meno difficoltose sia la comunicazione sia la comprensione.
Voglio citare il sito del Ministero della Salute perchè viene spiegata benissimo il tipo di telefonata a cui si va incontro chiamando il 118; non sempre infatti le persone che chiamano sanno che tipo di telefonata avranno.
Come chiamare il 118
Di cosa parlo? Delle telefonate naturalmente!
Sarà capitato alla maggioranza di voi di essere nella vostra sede e sentire il telefono della linea urbana suonare; normalmente rispondendo, diciamo "Nomedellassociazione, buongiorno?".
La risposta di solito non si fa attendere, e può essere di 4 tipi:
1. Normali domande di persone che chiamano perché interessate a comunicare con l'associazione in questione, per servizi et similia
2. "Parlo con il 118?"
3. "Ho bisogno di aiuto, pincolpallino sta male, venite con l'ambulanza!"
4. "Mi serve il farmacoX perché sto male, venite ad aiutarmi!"
Il vero problema in queste situazioni è che chiamare la linea diretta dell'associazione è completamente inutile.
L'unico numero da fare è il 118, perché è l'unico che ha la possibilità di decidere se e quando mandare il mezzo di soccorso.
Purtroppo però non tutti sono al corrente di questo dettaglio, e sta anche nella prontezza del soccorritore dare alla persona al telefono le giuste istruzioni per far capire nel minor tempo possibile come procede nella maniera corretta, e non sempre è facile perchè spesso le persone che chiamano sono talmente agitate e preoccupate che farsi capire diventa un'impresa.
E' capitato anche a me di trovarmi al telefono ripetendo tre o quattro volte "deve chiamare il 118, non noi" mentre la persona dall'altra parte mi vomitava addosso parole e urla.
L'unico modo è rassicurare e indirizzare la persona, senza dimenticare di fare nessuna delle due cose.
Imponendo la calma, diventano meno difficoltose sia la comunicazione sia la comprensione.
Voglio citare il sito del Ministero della Salute perchè viene spiegata benissimo il tipo di telefonata a cui si va incontro chiamando il 118; non sempre infatti le persone che chiamano sanno che tipo di telefonata avranno.
Come chiamare il 118
- Comporre il numero telefonico 118
- Rispondere con calma alle domande poste dall’operatore
- Fornire il proprio recapito telefonico
- Spiegare l’accaduto (malore, incidente, etc.)
- Indicare dove è accaduto (Comune, via, civico)
- Indicare quante persone sono coinvolte
- Comunicare le condizioni della persona coinvolta: risponde, respira, sanguina, ha dolore?
- Comunicare particolari situazioni: bambino piccolo, donna in gravidanza, persona con malattie conosciute (cardiopatie, asma, diabete, epilessia, etc.)
sabato 12 novembre 2011
Le vacanze del soccorritore
Quest'anno ho passato più tempo nella sede della mia associazione piuttosto che in spiaggia, ma questi sono quelli che io chiamo "dettagli".
E' curioso che i pazienti del periodo estivo spesso facciano la stessa domanda: "ma voi in vacanza non ci andate mai?".
Beh, in realtà in vacanza ci andiamo tutti o quasi, ma la cosa bella dell'essere in tanti in un'associazione è proprio questa: se qualcuno non c'è, ci sarà sicuramente qualcun'altro che sostituisce.
Siamo sempre operativi, a dispetto del caldo (TORRIDO!!!), gelo, neve...
Gli aneddoti più divertenti sono proprio quelli che succedono in condizioni climatiche discutibili, dove per altro ogni soccorritore arriva a fare la stessa considerazione: ma perchè diavolo la mia divisa deve lessarmi d'estate, e farmi congelare d'inverno?
Le divise atermiche sono il dettaglio più rilevante quando il clima sembra essere ostile.
Ad agosto, con il tipico caldo assurdo, riuscire ad andare in bagno a metà mattina significa correre un grosso rischio: abbassarsi i pantaloni della divisa senza avere la certezza di riuscire a ritirarli su una volta finito, perchè sembrano diventare improvvisamente pesanti e appiccicosi.
Una signora davvero simpatica che andai a prendere una volta mi chiese una cosa curiosa:
"Ma voi non avete una divisa estiva?"e risposi "Si signora, non vede? Sotto la giacca ho le maniche corte!"
"Ma va là! io parlavo di un bel completino estivo...ha presente?"mi limitai a sorridere, pensando tra me e me che sarebbe stato un bel lusso, ma anche un bel problema perchè in certe occasioni più sei coperto e meglio è.
Un esempio?
L'anno scorso, mentre tutti i miei amici erano al mare, io ero a casa e per giunta anche di turno.
Il 118 ci mandò su una crisi ipoglicemica e la scena era davvero molto simile ad uno scorcio dell'Esorcista.
Mai avevo visto vomitare una persona in modo così selvaggio e mai come quel giorno, con 32°C all'ombra, mi ringraziai per aver avuto l'accortezza di indossare anche il giaccone della divisa.
Al contrario, ci sono anche momenti in cui un soccorritore desidererebbe indossare due divise...specie quando fa un freddo cane e il climatizzatore dell'ambulanza sembra non voler collaborare.
Quando tutto ghiaccia e fuori nevica così tanto da sembrare una nevicata stile Lapponia, il soccorritore si rende conto che l'ultima speranza è il riscaldamento.
Una mattina d'inverno, a causa della neve, riuscimmo a fare 3 uscite in 8 ore, senza mai tornare in sede, tanta era la neve che ci impediva di andare a più di 40km/h.
E la cosa comica in tutto questo era il riscaldamento che ci aveva abbandonati proprio all'inizio del turno.
Le avevamo provate davvero tutte per farlo partire, e dopo quasi 8 ore sul mezzo gelido mi stavo anche abituando alla divisa ormai inzuppata fradicia e alla temperatura che rasentava i 10°C nel vano sanitario...una volta arrivati in sede, come per magia, il riscaldamento iniziò a funzionare.
In quel momento tutti stavamo desiderando di essere a casa, sotto il piumone a bere cioccolata calda invece di congelare senza pietà sul mezzo.
Il fatto è che quando sei un soccorritore (e non solo quando "fai il soccorritore", ma questo argomento lo tratterò un'altra volta) è più forte di te, rinunci volentieri ad una giornata in piscina d'estate o alla cioccolata d'inverno.
Salvo naturalmente quelle occasioni di cui sopra, dove spirito di sacrificio e intenti quasi blasfemi si intrecciano in una miscela perfetta...ma del resto, siamo esseri umani anche noi!! ;-)
E' curioso che i pazienti del periodo estivo spesso facciano la stessa domanda: "ma voi in vacanza non ci andate mai?".
Beh, in realtà in vacanza ci andiamo tutti o quasi, ma la cosa bella dell'essere in tanti in un'associazione è proprio questa: se qualcuno non c'è, ci sarà sicuramente qualcun'altro che sostituisce.
Siamo sempre operativi, a dispetto del caldo (TORRIDO!!!), gelo, neve...
Gli aneddoti più divertenti sono proprio quelli che succedono in condizioni climatiche discutibili, dove per altro ogni soccorritore arriva a fare la stessa considerazione: ma perchè diavolo la mia divisa deve lessarmi d'estate, e farmi congelare d'inverno?
Le divise atermiche sono il dettaglio più rilevante quando il clima sembra essere ostile.
Ad agosto, con il tipico caldo assurdo, riuscire ad andare in bagno a metà mattina significa correre un grosso rischio: abbassarsi i pantaloni della divisa senza avere la certezza di riuscire a ritirarli su una volta finito, perchè sembrano diventare improvvisamente pesanti e appiccicosi.
Una signora davvero simpatica che andai a prendere una volta mi chiese una cosa curiosa:
"Ma voi non avete una divisa estiva?"e risposi "Si signora, non vede? Sotto la giacca ho le maniche corte!"
"Ma va là! io parlavo di un bel completino estivo...ha presente?"mi limitai a sorridere, pensando tra me e me che sarebbe stato un bel lusso, ma anche un bel problema perchè in certe occasioni più sei coperto e meglio è.
Un esempio?
L'anno scorso, mentre tutti i miei amici erano al mare, io ero a casa e per giunta anche di turno.
Il 118 ci mandò su una crisi ipoglicemica e la scena era davvero molto simile ad uno scorcio dell'Esorcista.
Mai avevo visto vomitare una persona in modo così selvaggio e mai come quel giorno, con 32°C all'ombra, mi ringraziai per aver avuto l'accortezza di indossare anche il giaccone della divisa.
Al contrario, ci sono anche momenti in cui un soccorritore desidererebbe indossare due divise...specie quando fa un freddo cane e il climatizzatore dell'ambulanza sembra non voler collaborare.
Quando tutto ghiaccia e fuori nevica così tanto da sembrare una nevicata stile Lapponia, il soccorritore si rende conto che l'ultima speranza è il riscaldamento.
Una mattina d'inverno, a causa della neve, riuscimmo a fare 3 uscite in 8 ore, senza mai tornare in sede, tanta era la neve che ci impediva di andare a più di 40km/h.
E la cosa comica in tutto questo era il riscaldamento che ci aveva abbandonati proprio all'inizio del turno.
Le avevamo provate davvero tutte per farlo partire, e dopo quasi 8 ore sul mezzo gelido mi stavo anche abituando alla divisa ormai inzuppata fradicia e alla temperatura che rasentava i 10°C nel vano sanitario...una volta arrivati in sede, come per magia, il riscaldamento iniziò a funzionare.
In quel momento tutti stavamo desiderando di essere a casa, sotto il piumone a bere cioccolata calda invece di congelare senza pietà sul mezzo.
Il fatto è che quando sei un soccorritore (e non solo quando "fai il soccorritore", ma questo argomento lo tratterò un'altra volta) è più forte di te, rinunci volentieri ad una giornata in piscina d'estate o alla cioccolata d'inverno.
Salvo naturalmente quelle occasioni di cui sopra, dove spirito di sacrificio e intenti quasi blasfemi si intrecciano in una miscela perfetta...ma del resto, siamo esseri umani anche noi!! ;-)
venerdì 11 novembre 2011
Ma voi dell'ambulanza...come fate?
Spesso la gente mi chiede "ma come fai a fare il soccorritore?"...anzi no, spesso la domanda è "ma voi dell'ambulanza come fate? Non avete paura??" ecco si, così è meglio...avevo reso un po' troppo poetica la domanda ehehehe
A volte in vero me lo domando pure io!
Ci sono situazioni che MAI e poi MAI avrei pensato di dover gestire.
Io iniziai il corso per volontari con:
1. Un forte sentimento di disgusto verso sangue, vomito, feci e urina
2. Terrore di vedere una qualsiasi scena truculenta
3. Paura mista ad una forte curiosità verso tutto ciò che più mi spaventava
4. Nessuna intenzione di mettere piede su un'ambulanza di emergenza
Bel modo di partire, né?
In realtà ebbi modo di scoprire (si, perché si trattò di una vera e propria scoperta) che ero molto più "resistente" di quanto immaginassi.
Nella mia terza uscita in emergenza (ero ancora un "tirocinante", non avevo ancora finito il corso e quindi uscivo in addestramento come quarto della squadra col solo compito di "osservare") avevo guanti e divisa sporchi del sangue di una vittima di un brutto incidente stradale.
Ricordo bene quell'uscita.
Ad un paio d'ore dalla fine del turno suonò il telefono 118; essendo il mio secondo turno, non avevo ancora raggiunto una tranquillità interiore, anzi...l'operatore 118 dice "(nome della città), incidente, rosso. Non so dire altro, fatemi sapere".
Io non ne volevo sapere di uscire, dire che mi hanno trascinato sull'ambulanza è un eufemismo.
Mentre andavamo a manetta, a sirene spiegate, mi ripetevo "Ma cazzo, possibile che faccio due turni e mi capita proprio un rosso?! A me?! Che speravo nella gradualità dell'approccio?! Cazzocazzocazzo. Ma chi me l'ha fatto fare".
La mia testa era in palla, e ogni pensiero era farcito da una serie di svariate imprecazioni, avevo persino pensato che forse non faceva per me l'emergenza, che avrei potuto fare tutto il resto dei servizi secondari, reale motivo della mia iscrizione al corso.
Poi arriviamo in posto.
Ci rendiamo conto che l'incidente era un auto vs. moto, e la moto ha avuto la peggio.
In quel momento ho avuto la sensazione che il tempo rallentasse improvvisamente.
Dalla foga di poco prima, una calma disarmante mi prese all'improvviso...tutto divenne quasi "naturale".
Potendo solo osservare, assistetti i miei colleghi intervenuti sul posto come se fosse la cosa più naturale del mondo.
Non pensavo al sangue, alle urla...non pensavo a niente che non fosse attinente alla scena, l'obiettivo era fare il massimo al meglio possibile perché "se al posto del paziente ci fossi stata io, avrei voluto che le persone mi aiutassero nel migliore dei modi".
Soltanto quando l'elisoccorso si portò via il paziente realizzai la situazione: fu come riprendere coscienza dopo uno svenimento.
Mi resi conto di aver affrontato almeno due delle mie paure, e avevo vinto.
Avrei persino voluto fare di più per quella persona sulla strada, avrei voluto poter essere più d'aiuto...sapevo che dovevo aspettare fino alla certificazione, e decisi che avrei fatto il massimo per imparare il più possibile per migliorare sempre di più.
I miei colleghi mi diedero una pacca sulla spalla e uno di loro mi disse: "Bel modo di cominciare vero?".
Beh, cosa potevo dire?
Avevo capito che ero sulla buona strada.
A volte in vero me lo domando pure io!
Ci sono situazioni che MAI e poi MAI avrei pensato di dover gestire.
Io iniziai il corso per volontari con:
1. Un forte sentimento di disgusto verso sangue, vomito, feci e urina
2. Terrore di vedere una qualsiasi scena truculenta
3. Paura mista ad una forte curiosità verso tutto ciò che più mi spaventava
4. Nessuna intenzione di mettere piede su un'ambulanza di emergenza
Bel modo di partire, né?
In realtà ebbi modo di scoprire (si, perché si trattò di una vera e propria scoperta) che ero molto più "resistente" di quanto immaginassi.
Nella mia terza uscita in emergenza (ero ancora un "tirocinante", non avevo ancora finito il corso e quindi uscivo in addestramento come quarto della squadra col solo compito di "osservare") avevo guanti e divisa sporchi del sangue di una vittima di un brutto incidente stradale.
Ricordo bene quell'uscita.
Ad un paio d'ore dalla fine del turno suonò il telefono 118; essendo il mio secondo turno, non avevo ancora raggiunto una tranquillità interiore, anzi...l'operatore 118 dice "(nome della città), incidente, rosso. Non so dire altro, fatemi sapere".
Io non ne volevo sapere di uscire, dire che mi hanno trascinato sull'ambulanza è un eufemismo.
Mentre andavamo a manetta, a sirene spiegate, mi ripetevo "Ma cazzo, possibile che faccio due turni e mi capita proprio un rosso?! A me?! Che speravo nella gradualità dell'approccio?! Cazzocazzocazzo. Ma chi me l'ha fatto fare".
La mia testa era in palla, e ogni pensiero era farcito da una serie di svariate imprecazioni, avevo persino pensato che forse non faceva per me l'emergenza, che avrei potuto fare tutto il resto dei servizi secondari, reale motivo della mia iscrizione al corso.
Poi arriviamo in posto.
Ci rendiamo conto che l'incidente era un auto vs. moto, e la moto ha avuto la peggio.
In quel momento ho avuto la sensazione che il tempo rallentasse improvvisamente.
Dalla foga di poco prima, una calma disarmante mi prese all'improvviso...tutto divenne quasi "naturale".
Potendo solo osservare, assistetti i miei colleghi intervenuti sul posto come se fosse la cosa più naturale del mondo.
Non pensavo al sangue, alle urla...non pensavo a niente che non fosse attinente alla scena, l'obiettivo era fare il massimo al meglio possibile perché "se al posto del paziente ci fossi stata io, avrei voluto che le persone mi aiutassero nel migliore dei modi".
Soltanto quando l'elisoccorso si portò via il paziente realizzai la situazione: fu come riprendere coscienza dopo uno svenimento.
Mi resi conto di aver affrontato almeno due delle mie paure, e avevo vinto.
Avrei persino voluto fare di più per quella persona sulla strada, avrei voluto poter essere più d'aiuto...sapevo che dovevo aspettare fino alla certificazione, e decisi che avrei fatto il massimo per imparare il più possibile per migliorare sempre di più.
I miei colleghi mi diedero una pacca sulla spalla e uno di loro mi disse: "Bel modo di cominciare vero?".
Beh, cosa potevo dire?
Avevo capito che ero sulla buona strada.
giovedì 10 novembre 2011
Quando il telefono squilla
Dal momento in cui fui ufficialmente "un soccorritore", la cosa che tra tutte trovavo più destabilizzante era il suono del telefono del 118.
E' necessario spiegare che la sede della mia associazione, che svolge servizio di emergenza e urgenza 118 (banalmente, quelli che escono con l'ambulanza quando Pincopallino chiama il 118) è dotata di 2 linee telefoniche: quella della sede, un numero comune in possesso di tutti e segnato sulla rubrica telefonica come numero ufficiale, e una linea "privata" che serve alla Centrale Operativa del 118 per chiamare la sede più vicina all'evento urgente e con una squadra e un'ambulanza immediatamente disponibili.
Non so bene come suonino i telefoni 118 delle altre sedi, ma quello della mia ha uno squillo tremendo.
Ogni volta che suonava quel telefono facevo salti di due metri sulla sedia o sul divano; sapevo benissimo che facendo un turno come squadra 118 prima o poi sarebbe suonato (di solito, almeno una volta), tuttavia non riuscivo ad abituarmi a quel suono.
Continuavo a chiedere ai miei colleghi per quanto sarebbe durata "l'ansia da telefono", perché era davvero spiacevole sobbalzare ogni volta!
Loro spesso ridevano delle mie perplessità, dicendomi di non preoccuparmi perché con l'abitudine quel suono sarebbe diventato pian piano sempre meno acuto, sempre meno forte.
Non so a quanti sia capitato, ma io ci ho messo parecchio ad "abituarmici"...non ho mai capito perché quel suono mi facesse sobbalzare così.
Non capivo se era il telefono oppure quello che mi aspettavo da quella chiamata.
Ricordo bene il mio rapporto complicato con quella suoneria durante i primi tempi come soccorritore ...poi, un giorno che non ricordo con precisione, senza che io me ne rendessi conto davvero quel suono non mi fece saltare.
Ci pensai mentre prendevo la giacca e mi avviavo all'ambulanza...ricordo di aver pensato "wow allora era vero...prima o poi ci fai l'abitudine a quel suono assurdo".
Non riuscivo a capire se era perché quella mattina non avevo ancora bevuto il caffé oppure se era davvero arrivato il momento in cui avevo raggiunto un equilibrio.
Forse, pensai, avevo raggiunto una sorta di consapevolezza...conoscevo la mia squadra, sapevo che di loro potevo fidarmi, sapevo che ne avevamo viste di cose insieme e forse era venuto il momento di smettere di agitarsi, era arrivato il momento di accettare il fatto che anche io ero uno di loro, dopo l'immenso impegno e dedizione che avevo messo in tutto questo, finalmente ce l'avevo fatta: avevo raggiunto lo stadio in cui ti fidi di te stesso e della tua squadra.
Nonostante questo, mi sento di chiarire una cosa: la mia non è un'esperienza decennale in questo campo, tuttavia ho avuto modo di comprendere un aspetto di questa esperienza che non a tutti è chiaro; un buon soccorritore un po' di "paura buona" ce la deve sempre avere, perchè chi esce su un intervento troppo spavaldo o montato finisce sistematicamente col fare una stupidaggine, non importa se grande o piccola, è sempre a danno del paziente.
La "paura buona" non significa uscire con le gambe tremanti, altrimenti è meglio starsene a casa propria; la "paura buona" è quella sensazione che ci ricorda che nessuno di noi è Dio, siamo persone comuni che lavorano per altre persone comuni.
E' necessario spiegare che la sede della mia associazione, che svolge servizio di emergenza e urgenza 118 (banalmente, quelli che escono con l'ambulanza quando Pincopallino chiama il 118) è dotata di 2 linee telefoniche: quella della sede, un numero comune in possesso di tutti e segnato sulla rubrica telefonica come numero ufficiale, e una linea "privata" che serve alla Centrale Operativa del 118 per chiamare la sede più vicina all'evento urgente e con una squadra e un'ambulanza immediatamente disponibili.
Non so bene come suonino i telefoni 118 delle altre sedi, ma quello della mia ha uno squillo tremendo.
Ogni volta che suonava quel telefono facevo salti di due metri sulla sedia o sul divano; sapevo benissimo che facendo un turno come squadra 118 prima o poi sarebbe suonato (di solito, almeno una volta), tuttavia non riuscivo ad abituarmi a quel suono.
Continuavo a chiedere ai miei colleghi per quanto sarebbe durata "l'ansia da telefono", perché era davvero spiacevole sobbalzare ogni volta!
Loro spesso ridevano delle mie perplessità, dicendomi di non preoccuparmi perché con l'abitudine quel suono sarebbe diventato pian piano sempre meno acuto, sempre meno forte.
Non so a quanti sia capitato, ma io ci ho messo parecchio ad "abituarmici"...non ho mai capito perché quel suono mi facesse sobbalzare così.
Non capivo se era il telefono oppure quello che mi aspettavo da quella chiamata.
Ricordo bene il mio rapporto complicato con quella suoneria durante i primi tempi come soccorritore ...poi, un giorno che non ricordo con precisione, senza che io me ne rendessi conto davvero quel suono non mi fece saltare.
Ci pensai mentre prendevo la giacca e mi avviavo all'ambulanza...ricordo di aver pensato "wow allora era vero...prima o poi ci fai l'abitudine a quel suono assurdo".
Non riuscivo a capire se era perché quella mattina non avevo ancora bevuto il caffé oppure se era davvero arrivato il momento in cui avevo raggiunto un equilibrio.
Forse, pensai, avevo raggiunto una sorta di consapevolezza...conoscevo la mia squadra, sapevo che di loro potevo fidarmi, sapevo che ne avevamo viste di cose insieme e forse era venuto il momento di smettere di agitarsi, era arrivato il momento di accettare il fatto che anche io ero uno di loro, dopo l'immenso impegno e dedizione che avevo messo in tutto questo, finalmente ce l'avevo fatta: avevo raggiunto lo stadio in cui ti fidi di te stesso e della tua squadra.
Nonostante questo, mi sento di chiarire una cosa: la mia non è un'esperienza decennale in questo campo, tuttavia ho avuto modo di comprendere un aspetto di questa esperienza che non a tutti è chiaro; un buon soccorritore un po' di "paura buona" ce la deve sempre avere, perchè chi esce su un intervento troppo spavaldo o montato finisce sistematicamente col fare una stupidaggine, non importa se grande o piccola, è sempre a danno del paziente.
La "paura buona" non significa uscire con le gambe tremanti, altrimenti è meglio starsene a casa propria; la "paura buona" è quella sensazione che ci ricorda che nessuno di noi è Dio, siamo persone comuni che lavorano per altre persone comuni.
Incipit
Come per ogni diario che si rispetti, si inizia proprio dal principio, da quelle righe che saranno poi la vera chiave di lettura di tutto ciò che verrà dopo.
La mia "avventura" in questo mondo iniziò un po' per caso e un po' per curiosità; non sapevo niente di niente del mondo del volontariato, e men che meno sapevo a cosa stavo andando veramente incontro, ma la cosa mi incuriosiva davvero tanto, un po' per sentito dire un po' perché era qualcosa di totalmente nuovo e fuori dalle mie corde.
Avevo già rimandato da un anno l'iscrizione al corso di reclutamento volontari, e l'anno dopo non esitai ad iscrivermi.
Premetto di tendere spesso a perdere velocemente l'interesse per quasi ogni cosa; inizio con un entusiasmo quasi infantile, per poi finire (nella migliore delle ipotesi) a mollare tutto nel giro di pochi mesi.
Nessuno avrebbe scommesso un euro sul mio nuovo obiettivo: diventare volontario in una qualche associazione.
Onestamente, non ci avrei scommesso nemmeno io.
Ricordo perfettamente la prima sera di presentazione del corso, e una cosa in particolare non mi aspettavo: trovarci soltanto una ventina di persone, e tra l'altro individui tra i più disparati.
Mi aspettavo un gruppo di ragazzini/e o comunque diciamo che mi aspettavo un pubblico molto più numeroso e in una fascia tra i 18 e i 40 anni ecco...invece eravamo davvero assurdi, lasciatemelo dire.
E la cosa non mi convinceva molto, mi sembrava un po' approssimativa.
Tuttavia avevo deciso di non mollare.
Dopo aver perso svariate persone, ritiratesi dal corso per varie ed eventuali ragioni, alle lezioni eravamo rimasti in meno di 15 persone, in una fascia d'età compresa tra i 20 e i 65 anni.
Fu il percorso che ci portò a concludere i vari moduli del corso che ci unì come gruppo, riuscimmo a conoscerci meglio, a frequentarci, a capirci e pian piano ad entrare a far parte del nucleo più grande, conservando comunque una particolare intesa che proprio non mi aspettavo.
Non ho fatto alcuna fatica a portare a termine gli impegni, spesso trovandomi a fare cose che MAI avrei pensato di poter fare.
Lo scetticismo fece spazio all'entusiasmo vero, qualcosa che per me era del tutto nuovo; impegnarmi per dare il massimo, per superare le mie paure, per essere migliore e vincere la sfida quotidiana.
Alla fine del corso feci una full immersion, come si dice, nelle varie attività proposte, scoprendo un universo che fino ad allora avevo ignorato.
Col tempo l'entusiasmo è diventata vera e propria passione, e in un certo senso questo ha totalmente sconvolto la mia giovane vita, portandomi alla decisione di stravolgerla completamente perchè per la prima volta avevo (e ho) trovato qualcosa che amo fare nonostante la fatica e gli sforzi, qualcosa che riesce a dare un senso a tutto il resto.
E' da qui che inizia la mia storia di soccorritore, da questa passione nata un po' per caso. Strano, nè?
Spesso sento chi dice di "sapere da sempre che questa era la strada"; nel mio caso, io parlo di fortuna sfacciata perché non ho mai davvero saputo quale fosse la mia strada, mi affannavo soltanto a sceglierne una.
La mia "avventura" in questo mondo iniziò un po' per caso e un po' per curiosità; non sapevo niente di niente del mondo del volontariato, e men che meno sapevo a cosa stavo andando veramente incontro, ma la cosa mi incuriosiva davvero tanto, un po' per sentito dire un po' perché era qualcosa di totalmente nuovo e fuori dalle mie corde.
Avevo già rimandato da un anno l'iscrizione al corso di reclutamento volontari, e l'anno dopo non esitai ad iscrivermi.
Premetto di tendere spesso a perdere velocemente l'interesse per quasi ogni cosa; inizio con un entusiasmo quasi infantile, per poi finire (nella migliore delle ipotesi) a mollare tutto nel giro di pochi mesi.
Nessuno avrebbe scommesso un euro sul mio nuovo obiettivo: diventare volontario in una qualche associazione.
Onestamente, non ci avrei scommesso nemmeno io.
Ricordo perfettamente la prima sera di presentazione del corso, e una cosa in particolare non mi aspettavo: trovarci soltanto una ventina di persone, e tra l'altro individui tra i più disparati.
Mi aspettavo un gruppo di ragazzini/e o comunque diciamo che mi aspettavo un pubblico molto più numeroso e in una fascia tra i 18 e i 40 anni ecco...invece eravamo davvero assurdi, lasciatemelo dire.
E la cosa non mi convinceva molto, mi sembrava un po' approssimativa.
Tuttavia avevo deciso di non mollare.
Dopo aver perso svariate persone, ritiratesi dal corso per varie ed eventuali ragioni, alle lezioni eravamo rimasti in meno di 15 persone, in una fascia d'età compresa tra i 20 e i 65 anni.
Fu il percorso che ci portò a concludere i vari moduli del corso che ci unì come gruppo, riuscimmo a conoscerci meglio, a frequentarci, a capirci e pian piano ad entrare a far parte del nucleo più grande, conservando comunque una particolare intesa che proprio non mi aspettavo.
Non ho fatto alcuna fatica a portare a termine gli impegni, spesso trovandomi a fare cose che MAI avrei pensato di poter fare.
Lo scetticismo fece spazio all'entusiasmo vero, qualcosa che per me era del tutto nuovo; impegnarmi per dare il massimo, per superare le mie paure, per essere migliore e vincere la sfida quotidiana.
Alla fine del corso feci una full immersion, come si dice, nelle varie attività proposte, scoprendo un universo che fino ad allora avevo ignorato.
Col tempo l'entusiasmo è diventata vera e propria passione, e in un certo senso questo ha totalmente sconvolto la mia giovane vita, portandomi alla decisione di stravolgerla completamente perchè per la prima volta avevo (e ho) trovato qualcosa che amo fare nonostante la fatica e gli sforzi, qualcosa che riesce a dare un senso a tutto il resto.
E' da qui che inizia la mia storia di soccorritore, da questa passione nata un po' per caso. Strano, nè?
Spesso sento chi dice di "sapere da sempre che questa era la strada"; nel mio caso, io parlo di fortuna sfacciata perché non ho mai davvero saputo quale fosse la mia strada, mi affannavo soltanto a sceglierne una.
Questa volta però, in un certo senso, è stata la mia strada a scegliere me.
Iscriviti a:
Post (Atom)